PRIGIONIERE IN LIBERTÀ

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Articolo di Giorgia Succi

‘L’uomo condanna la donna alla doppiezza per la sua duplice esigenza che la donna sia sua e che rimanga un’estranea, che sia insieme schiava e maga’[1] scriveva a buon ragione Simone de Beauvoir.
L’uomo sei migliaia di anni fa iniziò a ribaltare etica e morale matriarcali che per novantaquattromila anni erano state principio sacro di conduzione comunitaria in cui donne e uomini potevano ricoprire ruoli diversi senza imposizione violenta, senza obblighi o punizioni.
Femmine e maschi convivevano all’interno di una società pacifica basata sul rispetto reciproco e la devozione per il corpo sessuato femminile: archetipo di vita, morte e rigenerazione.
La creazione del patriarcato nasce invece come totale opposto del matriarcato pacifico e anti-autoritario.
Il patriarcato si impone come gerarchia tirannica basata sul sesso biologico in cui essere femmina non debba più considerarsi benedizione divina ma condanna e maledizione.
La donna non appartiene più a se stessa ma all’uomo che diventa dio, stato, padrone, giudice e boia. La donna smette di esistere come essere indipendente, sfaccettata e onorata. Diventa costola, inferiore, sottomessa.
È dunque questo il presupposto d’avvio della società patriarcale in cui la donna diventa ‘l’Altro’, la merce da barattare, la madre e moglie comandata, la serva, la schiava, la prostituta.

La divisione binaria tra santa e puttana diventa caposaldo della morale patriarcale in cui le donne smettono di amarsi come sorelle per odiarsi come rivali, come oggetti più o meno meritevoli agli occhi del nuovo dio-uomo che, solo, può deciderne il valore.
La prostituzione nasce infatti come altra faccia del matrimonio, nel primo caso non era però necessaria la firma di un contratto. Oppressione più antica del mondo insieme allo scambio delle fedi, la prostituzione si basa sull’erotizzazione e feticizzazione della subordinazione della donna da parte dell’uomo. La donna prostituita, sia essa di strada o di corte, diventa emblema di ciò che una donna, possesso e fantasia maschile, non deve essere ma è utile e necessario che sia. La distinzione tra prostituzione e matrimonio così come tra puttana e moglie ‘santa e rispettabile’ è dunque una ripartizione fittizia che permette agli uomini il totale controllo fisico e psicologico sulle donne. In uno stato di dominio maschile ‘le donne hanno l’obbligo di consegnare i loro corpi ad uso (e consumo) degli uomini in cambio di mezzi di sussistenza’[2] e quando cercano di fuggire questa dipendenza vengono perseguitate, violate, stuprate, uccise. Il governo patriarcale riesce quindi a mantenere il suo potere e a rivendicare la supremazia maschile sulle donne attraverso la propaganda del consenso o la violenza fisica e psicologica come rilevava Kate Millett[3]. Ontologicamente non c’è alcuna differenza tra l’oppressione femminile derivante dall’imposizione della prostituzione o del matrimonio e quella indotta dalla libera scelta, se di libertà sotto il patriarcato si può parlare.

Prostituzione e matrimonio non possono né devono dunque considerarsi due istituzioni separate al fine di un’analisi femminista di ribaltamento dello status quo. Entrambe nascono con il patriarcato e l’invenzione della proprietà privata. Entrambe si basano sulla sottomissione e controllo delle donne all’interno della società misogina e sessista. Entrambe supportano il sistema violento e tirannico che ci ha imposto e impone la schiavitù.
Prostituzione e matrimonio non sono dissociabili per il patriarcato; non possono esserlo per il femminismo.
Una non può sopravvivere senza l’altra perché entrambe sono piloni portanti ed essenziali della struttura che ci opprime da migliaia di anni.

Com’è stato però possibile il mantenimento quasi inalterato nel corso di secoli della distinzione tra le due oppressioni?
Molte donne nel corso del tempo si sono battute per l’abolizione della prostituzione e hanno compreso il suo legame con l’istituzione matrimoniale, hanno compreso fossero due facce della stessa medaglia: da Mary Wollstonecraft a Elizabeth Cady Stanton, da Moderata Fonte a Anna Maria Mozzoni che riteneva il matrimonio la consacrazione ‘della violenza e invilimento della donna’[4]. Molte però, pur consapevoli dell’associazione, non hanno combattuto per l’abolizione del matrimonio come istituzione gemella della prostituzione ma si sono fatte ingannare da promesse e concessioni maschili che avrebbero migliorato la condizione di alcune ma non di tutte.
Gli uomini per salvaguardare l’esistenza della struttura patriarcale dovevano alimentare di nuovo la divisione tra donne, dovevano fomentare la differenza morale ed etica tra la prostituita e la moglie. Dovevano riconoscere alla moglie una maggiore ma artificiosa libertà all’interno del giogo matrimoniale così da impedire il collasso del sistema che li poneva e li pone in cima alla piramide gerarchica di potere.
Ecco avvenire allora una nuova ma fittizia divisione tra ruolo di moglie e prostituta: il primo diventa premio, il secondo rimane castigo.

Quando Veronica Franco, poetessa e prosatrice rinascimentale, si ritrovò a seguire le orme della madre come cortigiana era consapevole dello stigma che quella funzione avrebbe portato nella sua esistenza. Era però anche conscia che al tempo quella fosse la sua unica possibilità, in quanto donna, per poter istruirsi e scrivere, per potersi definire cittadina e artista prima di moglie e madre. Veronica Franco, come altre prima e dopo di lei, comprese che l’unica differenza tra l’essere moglie e cortigiana giaceva nell’essere proprietà di un singolo o possesso collettivo. La seconda scelta, se di scelta sotto il patriarcato si può parlare, le permise di smascherare la doppia morale misogina che tutt’oggi divide le donne in adeguate e inadeguate, in giuste e sbagliate, in pure e impure. Rivendicando il fatto che la dignità di ogni donna non va perduta perché vende il suo corpo a un uomo ma è quella dell’uomo che compra ad essere compromessa, macchiandosi di ignominia[5], dimostrò la fallacia dei principi morali e di comportamento maschili sotto il patriarcato.

Ogni donna è proprietà di stato, l’unica differenza è che la moglie ha un garante privato, la prostituta no.

La lotta per l’abolizione della prostituzione come stupro e violenza pubblica non può essere quindi scissa da quella privata nei confronti della moglie che è ad oggi vittima ricorrente di abusi, percosse e uccisioni da parte del marito, primo detentore del suo corpo di donna.
Il movimento femminista può vincere la sua battaglia contro il patriarcato solo rifiutando e combattendo entrambe le oppressioni come unicum, solo distruggendo entrambi i volti del Giano Bifronte patriarcale.

 

[1] Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Parigi: 1949, Gallimard.

[2] Sheila Jeffreys, The Industrial Vagina: The Political Economy of the Global Sex Trade, London: 2008, Routledge.

[3] Kate Millett, Sexual Politics, Garden City, New York: 1970, Doubleday. Cfr. https://medium.com/@bastagochi/la-politica-del-sesso-un-manifesto-per-la-rivoluzione-d3a91297589c

[4] Anna Maria Mozzoni, La donna e i suoi rapporti sociali, Milano: 1864, Tipografia sociale.

[5] Veronica Franco, Lettere Familiari A Diversi: Venezia: 1580. Cfr. http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/veronica-franco/

Un pensiero riguardo “PRIGIONIERE IN LIBERTÀ

  1. Condivido l’idea che matrimonio e prostituizione siano le due facce della stessa medaglia, ma credo che oggi sia molto difficile far passare l’idea che bisogna abbattere entrambi, perchè ora nell’equazione c’è, più forte che mai, il sentimento che, piaccia o no, lega molte donne ai propri partner. Oggi da molte il matrimonio non è vissuto come costrizione, anzi, lo si vive come una vera e propria scelta ( vero o no che sia). Secondo te non è proprio possibile modificare questa istituzione, in modo da “liberarla” dal patriarcato? Non può esistere un matrimonio femminista?

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