Prefazione e traduzione di Cristina Légovich
La poesia di Saffo è tra le più potenti non solo della letteratura greca arcaica cui appartiene, ma dell’intera letteratura classica. Che di lei siano rimasti solo frammenti è senz’altro un peccato per gli amanti del suo stile e della cultura, tuttavia proprio le frammentarie istantanee da un mondo antico e perduto conferiscono forza speciale all’intera sua produzione. Saffo era madre, vedova, ministra dei culti sacri ad Afrodite, poetessa inventrice di metri propri, i metri saffici, aristocratica. Per lei Platone conierà oltre duecento anni dopo l’epiteto di Decima Musa, a riprova della sua fama attraverso i secoli e della stima immensa che i letterati maschi di ogni epoca hanno provato per la sua poetica e per la sua persona.
Il conterraneo e amico Alceo lascia di lei una fotografia del VII-VI a.C.: “Saffo pura, dal dolce sorriso, dai capelli di viola.” Amante della raffinatezza come lei stessa ammette, gestiva uno dei vari tìasi presenti sull’isola di Lesbo, un collegio, diremmo oggi, dedicato al culto di Afrodite, dove confluivano da varie parti dell’Asia Minore e della Grecia orientale fanciulle da matrimonio, inviate dai genitori a pagamento perché fossero iniziate all’arte della poesia e ai misteri del matrimonio e della femminilità. Difficile stabilire oggi precisamente quali fossero le attività svolte nel tìaso. Dai frammenti emerge l’esercizio di strumenti come la lira, la capacità di intrecciare ghirlande, di cantare, pregare correttamente le dee per ottenere aiuto e la loro manifestazione (epifanìa), partecipare in luna piena ai riti di Afrodite nel roseto sacro, imparare a comportarsi e parlare elegantemente secondo le mode e i costumi dell’epoca. Forte del suo carisma di insegnante e donna adulta, non era per gli antichi una novità che Saffo potesse suscitare amore nelle sue fanciulle e lei potesse provare per loro la passione inviatale da Afrodite in un luogo di culti a lei dedicati. L’esclusività di un posto protetto e religioso, il trionfo della femminilità carnale e del femmineo sacrale sono a corona degli amori omoerotici che nascevano nel tìaso. Un’occasione indimenticabile di crescita per le fanciulle lontane da casa tra altre fanciulle, sotto la guida esperta di una donna che di femminile aveva fatto tutte le esperienze, dal matrimonio al parto, dall’eteroerotismo all’omoerotismo e poteva per questo condurle ad una scoperta individuale o meno del proprio corpo. La destinazione è il matrimonio, e vi si arriva attraverso l’esperienza comunitaria del tìaso, spesso la sola occasione di evasione di una vita intera. Ma la Grecia di Saffo non è ancora quella del V secolo a.C., è un luogo da cui si parte alla conquista coloniale dell’Italia del sud e in cui vivono ancora donne libere e indipendenti come la nostra poetessa, impensabili e assenti nei secoli successivi, soprattutto nelle sfere più alte della società. La sua poesia rappresenta e incarna questo periodo d’oro della letteratura e evidentemente della condizione femminile aristocratica.
È necessario ricordare che per la cultura classica il lesbismo di Saffo è una connotazione solo geografica e poco o nulla ha a che vedere con quello di oggi. Per Saffo l’amore tra donne è il trionfo della più spinta e raffinata femminilità pagana e una delle varianti della religione antica, per cui amare è sottostare ai voleri onnipotenti di due divinità, Afrodite e suo figlio Eros. Tutta la letteratura maschile arcaica e classica è connotata da forte e intenso omoerotismo. Era un’ideale aristocratico quanto la kalokagathìa, il binomio tra nobiltà e bellezza. Per cui Saffo non sconvolge i suoi contemporanei dicendo che preferisce la fanciulla amata alle potenze armate in schiera, come potrebbe immaginare il nostro mondo monoteista, ma li sconvolge perché osa dire che ciò che piace a tutti, la pompa ufficiale della forza bellica, a lei non piace. È una sottigliezza non da poco, che ci fa accorgere di quanto i nostri occhi e orecchi siano lontani da quel che si vedesse al tempo e come lo si interpretasse. L’omoerotismo non è una contraddizione, è un dato di fatto, un’ovvietà per un mondo che di peccato ha solo la hỳbris, tracotanza verso gli dèi. Non amare ciò che si desidera è hỳbris per quel mondo, è peccato. Tutto là è capovolto rispetto al nostro mondo di oggi. Con questo spirito va letto quello di Saffo e dei suoi Frammenti.
I Canti di Saffo
Canto I. Frammento 1.
Immortale Afrodite, figlia di Zeus,
dal trono variamente adorno,
tu che trami inganni, io ti prego,
non domare il mio cuore
di brame e dolori,
ma qui vieni se già un’altra volta
mi desti ascolto udendo la mia voce
da lontano, accorrendo
dopo aver lasciato la casa del padre
e aggiogato il carro d’oro; belli ti conducevano
i passeri veloci sulla terra nera
battendo forti le ali dal cielo
attraverso l’etere;
giunsero presto e tu, o beata,
sorridendo nel tuo volto immortale
mi chiedevi cosa di nuovo io patissi
e cosa di nuovo desiderassi di più
nel mio cuore impazzito. “Chi stavolta
persuaderò ad amarti? Chi, Saffo, ti fa torto?
Se ora ti sfugge, presto ti cercherà,
se non accetta i tuoi doni lei stessa te ne offrirà,
se non ti ama, presto ti amerà
anche se non volesse.”
Giungi a me anche ora, liberami da questo affanno crudele,
ciò che il mio cuore desidera si compia,
esaudiscimi, sii mia alleata.
Canto II. Frammento 2.
…dall’alto…
da Creta… tempietto sacro
dove c’è un boschetto che è un incanto
di meli e altari che profumano
del fumo dell’incenso;
là l’acqua fresca mormora tra i rami
dei meli, solo di rose il luogo ombreggia
e dalle foglie che frusciano
scende il sopore;
là un prato dove pascolano cavalle
è pieno di fiori di primavera,
le brezze soffiano dolci…
Qui, dea Cìpride,
ricevendo nei calici d’oro
versando con grazia un nettare
che si mischia all’allegria.